Sebbene gli impianti nucleari siano fermi, ogni anno le scorie aumentano di volume.
Questo è dovuto alle attività industriali e sanitarie. Siamo uno dei pochi paesi europei a non aver ancora un deposito nazionale.

Se pensate che a impianti nucleari fermi, l’Italia abbia sempre meno rifiuti radioattivi da smaltire, vi sbagliate. Ogni anno il volume delle scorie aumenta di 500 metri cubi, ovvero 140 tonnellate. In parte sono scorie derivanti dalla produzione sanitaria e industriale e in parte dal mantenimento in sicurezza degli impianti esistenti e alla loro disattivazione.

L’Italia non dispone ancora di un sito unico di stoccaggio dove stoccare in sicurezza tali rifiuti. La Sogin, la società pubblica partecipata dal ministero dell’Economia, ha il compito di localizzare, progettare, realizzare e gestire il deposito nazionale definitivo, un’infrastruttura ingegneristica di superficie.

La pubblicazione della Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (Cnapi) alla localizzazione del deposito doveva arrivare entro agosto. Entro tale data doveva essere redatto un programma per la gestione responsabile dei rifiuti radioattivi in linea con la direttiva europea 70/2011/Euratom. Gli unici paesi a non aver presentato il programma sono stati l’Italia e Malta. La differenza è che la piccola isola del Mediterraneo non ha 90mila metri cubi di rifiuti radioattivi da gestire.

“Si tratta di un ritardo fisiologico”, ha detto Fabio Chiaravalli, responsabile Sogin del deposito nazionale durante un convegno pubblico organizzato dal Piemonte e dall’Arpa. “I criteri per selezionare le aree idonee sono tanti – 28 per la precisione – e rigorosi: le procedure autorizzative richiedono anni. Ma questo succede anche all’estero. In ogni caso possiamo dire di aver iniziato a costruire il deposito, sebbene dalla carta”.

I vertici della Sogin hanno presentato in anteprima come sarà il nuovo deposito: “Non una discarica e nemmeno una pattumiera nucleare”, ma si tratterà di un insieme di barriere ingegneristiche una dentro l’altra. Prima i rifiuti trattati e compattati saranno chiusi dentro fusti di acciaio riempiti di cementite. A loro volta i fusti verranno sigillati in scatole di cemento armato e tutte le scatole – circa un centinaio – verranno disposte in una grande vasca, anch’essa di cemento. La grande vasca verrà infine coperta da uno strato di terreno e da un manto erboso. Il deposito occuperà 20 ettari di terreno, 10 di rifiuti. L’area che lo andrà a ospitare, invece, è grande 150 ettari perché intorno sorgeranno impianti di trattamento e manutenzione ma soprattutto il parco tecnologico, fiore all’occhiello della proposta Sogin. Costo stimato: 1,5 miliardi di euro, finanziato attraverso la componente tariffaria A2 della bolletta elettrica.

Il deposito è destinato a ospitare 75mila metri cubi di scorie a bassa-media attività, cioè scorie destinate decadere in poche centinaia di anni. Ecco perché il deposito è progettato per resistere 300 anni. Ma se sappiamo dove stoccare i rifiuti radioattivi di bassa-media attività, è ancora confuso il destino per i rifiuti con alta attività radioattiva (circa 15mila metri cubi, il 6 per cento delle scorie totali) che continuano a creare non pochi problemi di contaminazione.

L’unica soluzione sembra essere il deposito geologico di profondità. Questa soluzione, però, impone l’individuazione di un sito adatto, già di per sé un’impresa, e richiede decine di anni per la costruzione. Il deposito nazionale di superficie, dunque, è destinato a ospitare anche un complesso per lo stoccaggio temporaneo di lungo periodo per i rifiuti più pericolosi. Una soluzione temporanea, progettata per durare 50 anni. E dopo? “Dopo si vedrà” è stata la risposta di Sogin dopo uno degli ultimi incontri. Nel frattempo accelerare l’intero processo deve rimanere interesse di tutte le parti in causa, per permettere di svincolare risorse da investire nelle energie rinnovabili e dallo smaltimento a basso impatto.

(Fonte: Lifegate)